Una nuova proposta per il perduto Cristo nell’orto di Caravaggio.
Il Cristo sul monte degli ulivi (o Cristo nell’orto), di Michelangelo Merisi da Caravaggio è una delle opere del maestro meno studiate e approfondite dagli studiosi, sia i cosiddetti ‘antichi’ sia i moderni. Il motivo principale è che della tela non si ha più traccia dal 1945, essendo andata presumibilmente distrutta a Berlino, ultima roccaforte di Hitler, durante l’incendio divampato in una torre denominata Flakturm di Friedrichshain. Insieme a questo dipinto andarono perdute numerosissime altre tele. Tuttavia ci sono stati casi di opere rintracciate, nonostante fossero inserite tra quelle disperse. Questo per il semplice fatto che, fortunatamente, alcuni berlinesi ebbero la scaltrezza di rubare alcuni dipinti, mentre cercavano di salvarli dall’incendio.
L’opera oggetto del presente articolo, per i motivi di cui sopra e per il fatto che oggi è visibile solo attraverso una foto in bianco e nero, non ha attirato l’interesse degli studiosi che ne riferiscono solo in maniera sommaria. Essa presenta però delle peculiarità che vale la pena attenzionare. Lo scopo di questo articolo, infatti, non è tanto ripercorrere le vicende storiche della tela dai primi del Seicento fino al funesto secondo conflitto mondiale, ma esporre una mia personale teoria riguardante un particolare della scena costruita dall’artista. Tuttavia, a beneficio del lettore, si ritiene opportuno riassumere brevemente quanto – a oggi – è noto dell’opera.
La tela misurava 154 × 222 cm, e risulta inventariata a Roma a casa del marchese Vincenzo Giustiniani, come autografa del Merisi nel 1621, quindi nelle collezioni di Guglielmo III di Prussia nel 1815, e poi presso il Kaiser Friedrich Museum (oggi Bode), nella Gemäldegallerie. Fra i pochi studiosi ‘antichi’ che hanno avuto la fortuna di osservare materialmente la tela, vi fu Matteo Marangoni, secondo il quale essa è ‘paragonabile per i colori usati alla Morte della Vergine, specie per quanto riguarda i gialli e i verdi’.
Il soggetto rappresentato dal Caravaggio viene indicato da tutti come Cristo sul monte degli ulivi; una descrizione abbastanza sommaria, benché la scena si presenti piuttosto concitata, con un Cristo vistosamente agitato – mentre gli apostoli dormono – nei confronti di colui che, per aspetto, non può che essere individuato come Simon Pietro, futuro fondatore della Chiesa, intesa come istituzione religiosa e politica. Una prima descrizione del dipinto fu espressa nel 1672 da un poeta di nome Giovanni Michele Silos. Fra i vari epigrammi che compongono la sua opera letteraria Pinacotheca sive Romana Pictura et Sculptura, dove raggruppava diverse opere presenti nelle residenze nobiliari romane, al numero CLVI (156), ne troviamo uno dal titolo Christus Apostolos in horto increpat. Il titolo di questo componimento riferisce quindi che, nel dipinto, Cristo sta rimproverando gli apostoli (increpat).
L’opera in effetti raffigura il momento della Passione in cui il Cristo, dopo l’ultima cena, si reca con i discepoli nell’orto del Getsemani per pregare:
“Giunsero a un podere chiamato Getsemani ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino». […]” (Mc. 14,32-42)
Benché tutte e quattro le cronache evangeliche ufficiali riferiscano sostanzialmente la stessa successione di eventi, l’esegesi del dipinto non risulta così immediata. Silos, che probabilmente vide l’opera e ne discusse con il committente (o acquirente) della famiglia Giustiniani, parla di un Cristo che “rimprovera”; ma a chi scrive, il gesto del Cristo non sembra affatto un rimprovero.
La prima cosa che si nota è che Gesù gesticola con le mani in maniera plateale. Ma cosa sta indicando? Sta forse fermando con la destra qualcuno fuori dai margini del dipinto, mentre indica una direzione a Simon Pietro, oppure le sue mani sono aperte a rappresentare il numero “sette”? E se così fosse, che valore avrebbe quel “sette”, sia a livello teologico che iconografico?
Cerchiamo di ragionare su questa iconografia strana e originale.
Purtroppo non ho trovato nulla a riguardo fra i numerosi studi caravaggeschi consultati. Quanto meno nulla che analizzi la questione. La narrazione più pertinente all’iconografia è sicuramente quella del citato Vangelo di Marco, dove Cristo dice “basta”’; e nel quadro, in effetti, la mano destra del Cristo è raffigurata in un gesto che sembra evocare un arresto, un blocco. L’altra, invece, potrebbe indicare un’esortazione a muoversi: “alzatevi andiamo”. Ma sarebbe stato piuttosto arduo per l’artista, rappresentare due azioni così contraddittorie e quindi di non immediata comprensione per l’osservatore; specialmente per il Caravaggio così legato al concetto dell’hic et nunc.
Non resta che valutare la seconda ipotesi, ovvero che le mani del Cristo, in realtà, stiano indicando un “sette”. Credo sia logico indagare in tal senso, capire il significato del numero sette, ma anche del cinque della mano destra, e del due della sinistra, che lo compongono. Non sarà vano ricordare, a tal proposito, l’importanza della cabala e il gusto per l’alchimia che, in quel periodo storico, era molto diffuso.
Il sette è un numero importante in molti ambiti, culture e religioni. Sette sono le fasi lunari, i chakra buddisti, gli anni che il corpo necessita per rigenerarsi completamente, gli astri mobili (i pianeti della cabala che, all’epoca, si credeva fossero Sole, Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere e Saturno), le note musicali, i colori dell’arcobaleno; per non parlare di cose meno correlate allo specifico, come i sette colli di Roma e i suoi sette re, i sette filosofi greci, i sette pilastri della pittura governatori dell’Arte, che secondo Giovanni Paolo Lomazzo erano: Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Polidoro da Caravaggio, Mantegna, Tiziano e Gaudenzio Ferrari.
Ma focalizzando il discorso in ambito religioso, troviamo che il sette nella Bibbia ricorre soventemente. Sette sono i giorni della creazione, quindi la completezza dell’azione di Dio; sette è il numero dei vizi capitali, ma anche delle virtù, della saggezza. Secondo la prima enumerazione dei giorni il settimo è il sabato, quello del riposo per l’ebraismo. Ed era così ai tempi del Cristo. Per i cristiani, invece, il settimo giorno, sarà la domenica, come deciso nel 321 d.C. dall’imperatore romano Costantino il grande, il Pontifex Maximus che legittimò, nel mondo antico, la neonata religione cristiana.
Il sette è per i cristiani anche il numero delle opere della misericordia, dei sigilli del mondo, che se rotti aprirebbero la fase della sua fine; sette le azioni di Dio che Maria esprime nel Vangelo di Luca (1,46-55 i versi del Magnificat), la distanza in miglia tra Emmaus e Gerusalemme (Lc 24, 13). Sette sono gli arcangeli (i cattolici ne venerano però solo tre, Michele, Raffaele e Gabriele), i vizi capitali, i doni dello Spirito Santo (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio). Sette sono le sfere celesti, a ciascuna delle quali corrisponde un grado crescente di beatitudine. In ultimo, e forse i più calzanti, sette sono i sacramenti. Uno di essi è l’Eucaristia, istituita proprio durante l’ultima cena, qualche ora prima dell’episodio raffigurato dal Caravaggio.
Che quel sette nelle mani del Cristo sia un richiamo a tale importante sacramento? Peraltro nella VII sessione della prima delle tre fasi del Concilio di Trento, furono ribaditi i sette sacramenti riconosciuti come istituzioni dirette di Gesù, dei quali l’Eucaristia è certamente il più importante.
Il sette è visto anche come il numero della mediazione fra l’umano e il divino. In antichità era già riconosciuto come il numero della completezza del mondo, dell’universalità. Evolvendosi le varie religioni, troviamo che in quella cattolica Dio ha un valore universale, quindi il suo numero rappresentativo è il sette.
Platone teorizzava sull’anima mundi, e con l’avvento del cristianesimo il Dio onnipotente viene fuso con l’Uno platonico, fulcro dell’anima mundi. Nella concezione teista Dio è visto come individuo, contornato da sette cori angelici. Ma la completezza della religione cristiana, rappresentata dal numero sette, si raggiunge con l’avvento del Messia. Il sacrificio del Dio fatto uomo, per salvare l’umanità dai peccati del mondo, può essere quindi inteso in qualche maniera come il raggiungimento della perfezione.
Chi scrive non è certo un teologo però, dato che nei quadri del Merisi nulla è scontato, quel gesto così plateale del Cristo nell’orto degli ulivi risulta, davvero curioso. Che stia indicando proprio la completezza del disegno di Dio che si compirà con la resurrezione del suo Figlio unigenito? Peraltro l’evento della resurrezione, avverrà proprio la notte della domenica che è il settimo giorno. La domenica cristiana è il giorno del Cristo-criato-Luce, che si allinea al concetto del “giorno del sole”, teorizzato da san Giustino martire, vissuto fra il 100 ed il 165 d.C.; laddove il “sole” è Cristo e quello della sua resurrezione è il “giorno”, ovvero la domenica. Dunque i cristiani, nel contesto di completezza della missione del Messia, associano la domenica all’evento della resurrezione.
Il gesto descritto dalle mani di Gesù nel dipinto del Caravaggio, potrebbe configurarsi quindi come un’allegoria del settimo giorno; il giorno della completezza del disegno di Dio rappresentata dal numero sette. Forse un implicito messaggio controriformistico, per sancire che la domenica è la giornata del riposo, dedicata alla celebrazione dell’Eucaristia.
Alcuni protestanti dal XVI secolo, scelsero invece il sabato quale giorno del riposo, così come lo definiva la legge di Mosè. Lo fecero i battisti della Chiesa di Mill Yard (la più antica fra le chiese battiste) già nel primo decennio del Seicento, e forse – ma non vi sono molte prove a supporto – anche i primi seguaci di Valdes, o parte di essi. Si potrebbe forse supporre che la simbologia contenuta nella tela in oggetto fosse una risposta a questa nascente dissidenza verso il culto della domenica? Magari voluta espressamente dal cardinale Benedetto Giustiniani?
Se poi si guarda al sette così come si compone dalle mani del Cristo nel dipinto, ovvero cinque nella destra più due nella sinistra, ne scaturiscono altre considerazioni.
Il cinque è il numero della vita universale, il divino, la mediazione fra cielo e terra, spirito e materia, visibile e invisibile; rappresenta la trascendenza, richiama il Verbo, la Parola divina, la sapienza. Il due rappresenta gli opposti: vita e morte, bene e male, ma anche la dualità, l’unione tra Cristo e il Padre, Dio che si manifesta attraverso il Figlio. In qualche maniera qualcosa sembra quadrare: “cinque” mediazione fra cielo e la terra, “due” unità tra Dio Padre e il Figlio Cristo, e infine il “sette” che si ottiene, ovvero la completezza del disegno di Dio.
Nei Vangeli riconosciuti, come ad esempio in quello di Giovanni, è scritto: “il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.” (Gv. 14,1-10) Gesù, quindi, professa che il Padre dimora in lui, e compie le sue opere. Si configura quella mediazione fra cielo e terra indicata dal numero “cinque”. Inoltre Gesù comunica che Lui è nel Padre e il Padre è in Lui; dunque si torna al significato del “due”, la dualità Padre-Figlio. Le due cose insieme portano alla completezza, ovvero il “sette”.
Per comprendere come Gesù illustra agli apostoli il concetto della pienezza, è interessante considerare il lungo discorso che, durante l’ultima cena, segue il momento della scoperta del traditore, quando Giuda intinge il pane con il Maestro; a partire dal capitolo 13, 31 e per i quattro capitoli successivi, fino alla fine del diciassettesimo. In sintesi, il discorso dell’importanza della dualità Padre-Figlio che porterà alla venuta del Paràclito, ovvero lo Spirito Santo, si palesa in questi passaggi:
“Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi” (Gv 14, 15-17).
“Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 26).
“Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio” (Gv 15, 26-27).
“Ma io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi. E quando sarà venuto, dimostrerà la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio.” (Gv 16, 7-8).
Gesù risponderà alle domande degli apostoli, e ripeterà loro sette volte di rimanere in lui, ossia di credere in lui:
Gv.14, 6: “[…] io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”
Gv.14, 7: “Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto”
Gv.14, 9: “[…] Chi ha visto me, ha visto il Padre”
Gv.14, 10: “[…] Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere”
Gv.14, 11: “[…] Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me”
Gv.14, 20: “[…] In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi”
GV.17, 21: “perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te”
Nel Getsemani, come evidenziato poc’anzi, Gesù ripeterà ancora sette volte il concetto dell’unità Padre-Figlio. Quindi chi crede in Cristo crede nel Padre. Una consecutio… E il sette è il numero che rappresenta la completezza ottenuta attraverso il sacrificio eucaristico e la resurrezione del Figlio, che porterà al Paràclito, lo Spirito Santo. Con esso si arriverà alla completezza di Dio, che per la religione cattolica è data dalla Trinità, il dogma fondamentale del cristianesimo.
Nel capitolo successivo, il 15, inoltre è anche il concetto che in lui bisogna rimanere, che si ripete sette volte:
“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.” (Gv. 15,1-8)
Sul lago di Tiberiade Gesù risorto incontra per l’ultima volta i discepoli, prima di assurgere. Anche qui si manifesta il sette, dato dai discepoli:“Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli.” (Gv. 21,1-2). Il “sette” è il numero dell’universalità, e saranno questi sette discepoli a dar vita al cristianesimo universale nel mondo, nel nome della trinità: padre, figlio e spirito santo.
Un’ulteriore teoria sul significato espresso dalla scena rappresentata in questo dipinto, più ostica ma altrettanto verosimile della precedente, potrebbe essere una critica moraleggiante alla Chiesa.
La Chiesa che Pietro rappresenta è “assonnata”, non è abbastanza vigile, e viene insidiata dal pericolo che incombe (il protestantesimo); Cristo “sveglia” Pietro – e dunque la Chiesa – con la mano destra aperta, come fosse un monito nei suoi riguardi, tesa a richiamarne l’attenzione, e le dita della sinistra a indicare la via, come un invito ad agire, a cambiare rotta.
Gli apostoli dormienti sono dipinti nella parte bassa, quella in ombra; rappresenterebbero l’umanità inconsapevole. Cristo splende di una luce che è metafora della verità, del divino che agisce concretamente sugli ignari del pericolo. I dormienti, per l’appunto. E quella luce irradia per primo Pietro (la Chiesa), svegliandolo; è lui il “pastore” designato, responsabile del suo “gregge”, ovvero gli uomini (gli apostoli). Dovrebbe essere Pietro (la Chiesa) a tenerli svegli.
Un’altra ipotesi vedrebbe nella scena, non il momento della sgridata, ma quello descritto nel Vangelo di Marco nel quale il Cristo dice ai tre apostoli che lo accompagnavano, e staccatisi dal resto dei seguaci: ‘Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare’. La mano destra potrebbe indicare “qui” mentre la sinistra indicherebbe “là”. Tuttavia questa lettura del gesto di Cristo non risulta abbastanza supportata, anche perché gli studiosi non sono riusciti a comprendere se l’artista ha rappresentato un momento precedente o successivo alla sua preghiera. Se fosse stato successivo sul volto del Cristo ci sarebbero state delle gocce di sangue sulla fronte, come riporta il Vangelo di Luca: “Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra.” (Lc. 22, 43-44)
Ma è davvero difficile capire dalle foto che ci sono rimaste, se ci sia del sangue sulla fronte del Cristo dipinto da Caravaggio, e dunque appurare che si tratti del momento successivo all’agonia.
Chi scrive ritiene che la prima teoria analizzata, quella che si riferisce al numero “sette”, sia la più probabile, per la simbologia decisamente religiosa che il numero esprime e per il messaggio di forte “appartenenza” che essa doveva trasmettere ai fedeli contemporanei del Merisi, così come nelle intenzioni controriformistiche della Chiesa.
Il presente contributo costituisce solo una proposta per gli “addetti ai lavori” in ambito artistico, a cui seguirà una esposizione più larga e dettagliata in un libro di prossima uscita sulla vita e le opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio.
.Dario Blues Di Nardo