Il tempo passa, ma ci sono date che rimangono impresse nel cuore di una generazione. Una di queste è l’8 maggio 1991, un giorno che Lanciano non dimentica. Romano Angelilli, figura “sacra” del calcio giovanile della città, lasciava questo mondo improvvisamente, segnando per sempre la memoria di tutti quei ragazzi che avevano calpestato il terreno del campo di Villa delle Rose, il luogo per eccellenza del calcio giovanile.

Quel campo, oggi scomparso, era una seconda casa per i giovani lancianesi, che sognavano di diventare calciatori. Non c’era altro: si giocava sotto casa, e se eri “buono” — anche se scarso — finivi lì, con le ginocchia sbucciate e il cuore pieno di sogni. Erano gli anni delle scuole calcio gratuite, inclusive, dove il pallone era vita, crescita e sudore. Non si pagava per giocare, si pagava con la fatica e la passione.
Romano Angelilli non era solo un allenatore: era l’amico, il padre, il confessore di tutti quei ragazzi. Il suo abbigliamento, lontano da quello che oggi immaginiamo per un tecnico, era lo specchio di una figura che viveva al di là delle convenzioni. Zoccoli in legno e pantaloncini cortissimi d’estate: quella era la moda, ma a Romano poco importava. Lui era il guru del pallone con le sue “formule magiche”…
“Palla fai tu…, giochiamo in 10
Ma quell’8 maggio, durante un pomeriggio come tanti altri, un malore improvviso. Romano non disse nulla subito, poi il ricovero in ospedale, e infine la notizia che avrebbe sconvolto la città. Volò via a soli 43 anni, senza essere mai stato sposato. La sua famiglia? Quei ragazzi che per lui erano tutto, ora uomini e padri, che ancora oggi lo ricordano con affetto e malinconia.
Il calcio di quegli anni, tra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90, aveva un potere salvifico per molti giovani. Era un’epoca particolare, una Lanciano vivace con i suoi punti di ritrovo: la pista, il corso, le panchine dei viali. E lui, Romano Angelilli, era il simbolo immortale di quel tempo. I suoi occhiali da sole, gli zoccoli e i pantaloncini rimangono impressi nella memoria collettiva, come il giorno dei suoi funerali: pioveva, ed era maggio, ma ciò che colpiva più di tutto era il silenzio irreale di quei ragazzi, uniti nel dolore.
Romano era un amico, un “mago del pallone” che ha permesso a tanti di vivere il sogno, anche se nessuno di loro è diventato un calciatore professionista.
Nelle parole di Francesco De Gregori, in una delle sue canzoni più iconiche, si nasconde un frammento di questa storia:
“Ma Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore un giocatore lo vedi dal coraggio dall’altruismo e dalla fantasia.”
Romano lo sapeva bene. Non era importante solo il goal, ma il cuore che ci mettevi dentro, il coraggio di provarci, il sogno di volare oltre il campo. Come in un altro frammento della stessa canzone:
“L’allenatore sembrava contento e allora mise il cuore dentro le scarpe e corse più veloce del vento. Prese un pallone che sembrava stregato accanto al piede rimaneva incollato. Entrò nell’area tirò senza guardare Ed il portiere lo fece passare.”
Romano era quel tipo di allenatore che, come il protagonista del brano, sembrava contento di vedere i ragazzi dare tutto, correre più veloci del vento, con il pallone attaccato al piede. E magari quel goal lo facevano davvero, ma per Romano, ciò che contava davvero era l’impegno, il sacrificio e il cuore che mettevano in ogni partita.
Quello che oggi rimane è il ricordo di un uomo che non ha mai chiesto nulla in cambio, se non vedere quei ragazzi felici con un pallone tra i piedi.
- Clara Labrozzi